Le Bretelle

Quel salone restava sempre chiuso, a chiave. Nonna ci entrava solo per prendere le tazze dove serviva la crema con l’amido. Quest’espressione  designava, per noi nipoti, una crema diversa da qualunque altra al mondo, non perché migliore ma perché realizzata con un ingrediente misterioso, noto e accessibile solo a lei.  Per un bambino, quella grande dimora disabitata era un universo parallelo, dove oggetti e gesti invariabilmente antichi, sempre difformi da quelli ordinari a me noti, costituivano prove iniziatiche, indispensabili a divenire più tardi un membro adulto di quella famiglia. La conoscenza della crema con l’amido, o di quei curiosi  campanelli in ogni stanza, che facevano accendere numeri diversi in cucina, serviti un tempo a chiamare i domestici – guai a suonarli per gioco! – era evidentemente necessaria per trovare un giorno un lavoro e avere dei figli. Purtroppo dopo la crema, che già mi piaceva poco, veniva il privilegio sommo, le ciliegie sotto spirito. Nonna le teneva in un grande armadio buio, in un corridoio buio, dentro un  barattolo come quelli dove si conservano i feti deformi. Trovavo quelle preziose ciliege terribili ma, naturalmente, non si poteva dire. Per fortuna, ne era gelosa e me ne dava solo una.

Quando seguivo nonna nel salone chiuso a chiave, non potevo sfuggire allo sguardo accigliato di un’arcigna signora. Viveva nel salone con altri personaggi egualmente severi, ciascuno solo, dentro la sua cornice. Fantasticavo che, sinché la porta era chiusa – ma perché la chiudeva, viveva sola… – si sgranchivano nel salone,  raccontandosi le loro storie, sempre le stesse da secoli; appena la chiave girava nella toppa si tuffavano nelle cornici, repentinamente immobili e austeri. La signora era appesa sopra il divano truccato. All’aspetto era un bel divano antico, con l’imbottitura di velluto marrone rigonfia, ma anche lui non era un divano come gli altri, fuori nel mondo. Se un incauto avventore – ciò è puramente teorico, perché nessuno ci entrava e ancor meno avrebbe osato sedersi –  ci si afflosciava sopra, ne veniva violentemente respinto. L’imbottitura non era morbida, non so di cosa fosse fatta, forse di crine, comunque era rigida. Nonna diceva che era stata fatta apposta così, in un’epoca in cui la gente stava seduta composta, perché non potesse «abbandonarsi» come al giorno d’oggi, che era cinquant’anni fa. Insomma, le tende perennemente tirate, i mobili scuri, la signora feroce, quando entravo in quel salone non mi sentivo per niente tranquillo: quello era un mondo estinto e ostile. Eppure, quella signora doveva essere una mia antenata e la contaminazione tra passato e presente mi appariva, d’istinto e per educazione, così implicita e ovvia, che immaginavo dovesse volermi bene come una zia. Non potevo spiegarmi perché mi guardasse così. Portava uno strano collo bianco orizzontale, che nonna più tardi definì  gorgiera  e un toupet sulla testa. Un giorno infine osai chiedere chi fosse e nonna mi guardò allibita.

“Signora ? Quale signora?”  
“Quella del quadro…”
“Ma Vittorio, che dici! Altro che signora! Quello è un grande uomo, un tuo antenato. Perché pensavi fosse una donna?”
“Il vestito, e poi quella crocchia di capelli sulla testa…”
“Il vestito è quello di un magistrato dell’Ottocento. E la crocchia non è affatto una crocchia, è solo un buco sulla tela”

Seguirono dettagli su questo antenato, che era stato «ministro senza portafoglio». Per anni mi sono domandato cosa ne avesse fatto. Il buco sulla testa creava un’ombra che mi era sembrata un toupet.  L’aria severa, lo capii solo in seguito, era quella propria a chi rappresenta la Giustizia. Vicino, più commovente appariva, per contrasto, lo sguardo smarrito di un bambino piccolissimo, il cosiddetto Zio Eugenio, ancora incapace di credere, da due secoli, di essere morto all’età di due anni cadendo da una sedia. In regola generale degli antenati non si parlava molto. Appena si ripeteva qualche aneddoto tramandato dalla memoria familiare, come quella Giovanna che quando andava in chiesa occupava tre sedie, con gli ammennicoli che si portava dietro, e questo era tutto ciò che restava di lei. Ogni volta però non mancavano di aggiungere che quegli antenati si erano distinti – anche Giovanna, per via delle sedie – e ci si aspettava da me che facessi lo stesso. È andata male, ho fatto il ballerino e la guida turistica.

Quel giorno, per completare la biografia del magistrato con una reliquia, nonna aprì il settimanile. Con questo nome si designava un mobile che mi sembrava assomigliare a qualunque altro, salvo che, come la crema, anche  il mobile lì dentro aveva il suo nome, era un settimanile. Tutto in quella casa, per il solo fatto d’essere antico, prendeva un aspetto d’incantesimo e si faceva araldo di un’altra dimensione, ancora ignota a me perché bambino, ma evidentemente, da quanto coglievo nell’atteggiamento degli adulti, dimensione maggiore, più alta, esemplare. Il settimanile  aveva dei recessi segreti, spazi tra i cassetti che a loro volta potevano aprirsi, rivelando  oggetti misteriosi. Una volta nonna estrasse dei fogli ingialliti, meticolosamente ripiegati. Contenevano il racconto della vita di un antenato spagnolo che, se ricordo bene, si era fatto scuoiare dai turchi piuttosto che abiurare alla fede cattolica. Più cassetti lei apriva, meno io sentivo che avrei potuto assomigliare ai signori nei quadri. Ho fatto il ballerino per esclusione. Quel giorno estrasse con cura un plico oblungo di carta velina. Dentro c’era un oggetto meraviglioso, le bretelle dell’antenato col buco sulla testa. Oggi sono qui, dietro di me mentre scrivo. Ricamate nel Settecento da una ragazza napoletana che cercava di mettere da parte la dote per sposarsi, ci volano ancora farfalle, un uccello dorato e in fondo la lira di Apollo.

Sono certo che Nicola Nicolini, esclusivamente assorbito dalla giurisprudenza, non ha richiesto quel dettaglio. La ricamatrice l’avrà preso da un repertorio, senza sapere cosa significasse, tanto nemmeno sapeva leggere, era solo una di quelle immagini che – va a capire perché! – piacciono ai signori. Per Maria Nicolini, la mia trisavola, avrà ricamato una borsa e delle scarpe. Forse sono passate per le sue mani quelle immense lenzuola bianche con le cifre ricamate in rosso in un angolo – serviva a evitare che, quando si mandavano a lavare, ti restituissero altre lenzuola bianche, magari vecchie e logore – che d’estate, al momento di chiudere la casa per le vacanze, venivano stese sui mobili.

Quei fantasmi restavano gli unici padroni, finché durava il caldo, della casa addormentata e muta. In capo a tre anni la ricamatrice avrà risparmiato abbastanza per sposare un giovane fonditore di campane, bravissimo a fare i si bemolle. Forse qualche chiesa a Napoli ha ancora una campana, ormai stonata, fatta da lui. Un figlio di sicuro gli é morto bambino, di tifo. La femmina ha imparato a ricamare e quando il campanaro é morto, abbastanza vecchio, a cinquant’anni, lei si è rimessa a ricamare, ma ormai non ci vedeva più. Quella donna senza nome, che ha ricamato le mie bretelle, non mi è meno parente del ministro. Anzi, essendo io privo di portafoglio e  ministero, è più simile a me. Nelle farfalle di seta che volano immobili dal Settecento, c’è qualcosa di sontuoso e disperato come in ciascuno di noi.

Vittorio de Martino

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