Giano era il dio delle soglie e dei ponti, materiali e immateriali, degli inizi, delle nascite, dei passaggi di stato (quindi anche delle iniziazioni ai Misteri) ed era il dio più arcaico dei romani. Ovidio nei “Fasti” dice che: “Lui già esisteva quando si separarono i quattro elementi per dare forma alle cose”.
L’anno dei romani cominciava il 21 marzo, con l’equinozio di primavera, ma il vero volgimento dell’anno si verificava subito dopo il solstizio invernale, quando il princìpio luminoso ricominciava a crescere nel mondo. Per questo motivo, secondo la leggenda, il re Numa Pompilio avrebbe reso gennaio, il primo mese dopo il solstizio, sacro a Giano. Portava le insegne dei custodi delle soglie e dei portieri: una chiave e un bastone. Il suo compito, di aprire e chiudere le porte materiali e quelle invisibili, era all’origine dei suoi due soprannomi: Patulcius e Clusius, “colui che apre” e “colui che chiude”.
Rappresentato come bifronte, a sottolineare che presiedeva alle due funzioni delle porte, l’entrata e l’uscita, aveva anche il dono di poter scrutare lontano sia nel passato che nel futuro, ed era quindi anche un dio venerato dagli aruspici e dai veggenti.
Giano, come dio degli déi, non aveva un sacerdote a lui dedicato, era lo stesso Rex Sacrorum a sacrificare in suo nome e l’invocazione a Giano, nelle processioni, doveva precedere ogni altro sacrificio dedicato alle divinità (mentre l’ultimo veniva dedicato alla dea Vesta). Le porte del tempio di Giano venivano aperte in occasione delle guerre e richiuse in tempo di pace. Dal punto di vista cosmologico, ogni giorno il dio apriva e chiudeva le porte del cielo all’alba e al tramonto. Aveva anche il potere di far scaturire sorgenti dal terreno.
La natura più arcaica e interessante di questo dio deve essere ricercata nel suo rapporto con Vesta, la dea che vegliava sul fuoco e sul focolare, studiato in particolare da Dumezil. Dal punto di vista materiale Giano vegliava sull’entrata della casa, da dove penetra la luce, Vesta sul focolare domestico (la luce “prodotta” dall’interno e il fuoco destinato a trasformare gli alimenti sottoposti alla sua azione) e sul “penus”, la dispensa in cui vengono conservati e accumulati i beni necessari alla sopravvivenza della famiglia. Ma, dal punto di vista sottile, Giano era proprio il fuoco su cui vegliava Vesta, sacro agli antenati, al Genius, ai Lari e ai Penati, un fuoco celeste che incarnava il perpetrarsi dello spirito del Genius familiaris di generazione in generazione. Giano era quindi anche un dio della creatività e delle nascite.
Queste stesse caratteristiche valevano “in grande” per l’intera città: Giano era l’anima del fuoco custodito dalle Vestali nel tempio di Vesta e quel fuoco rappresentava l’anima della stessa città, era la garanzia della continuità della sua identità nel tempo.
Raccontava il mito (riferito anche da Virgilio nel libro VII dell’Eneide) che fu Giano ad accogliere Saturno nel Lazio, dando inizio all’esiodea età dell’oro, e Saturno ricambiò l’ospitalità ricevuta insegnandogli i segreti dell’agricoltura. In effetti Giano era stato anche Signore della vite e del grano molto tempo prima di Bacco e di Cerere.
Nell’antica Roma Giano, che aveva la sua sede sul colle del Gianicolo, veniva celebrato dai Salii con queste parole: “Cantate il padre degli dei, supplicate il dio degli dei. Oh sole, sorgi al mondo! Oh tu che apri la porta del cielo! Sei il gentile portiere, sei il buon Ianus, sei il benefico generatore!”
Un’ultima caratteristica attribuita a Giano era quella di saper tenere insieme in equilibrio i princìpi opposti.
Terminiamo allora con una invocazione a Giano e un auspicio per il nuovo anno perché, nel conoscere in mondo, possano convivere in noi due caratteristiche indispensabili al nostro equilibrio: la sobrietà, l’oggettività, l’umile disciplina e la metodicità dello spirito scientifico e l’amore per la poesia, il mistero e il senso del sacro e dell’invisibile dello spirito mistico-religioso.
Ogni squilibrio tra questi due poli è infatti fonte di grave infelicità e sciagura per il genere umano. Esagerare in modo unilaterale la fede nella razionalità e nella scienza conduce all’aridità, al materialismo e alla completa cecità per tutto ciò che ha natura sottile o non è soggetto al controllo umano, infine a non chiederci nemmeno quale sia il senso della nostra esistenza. Esagerare, invece, l’aspetto mistico-intuitivo della conoscenza conduce alla paranoia e alla follia di chi vede in ogni manifestazione esteriore un segno premonitore o un complotto, alla nevrosi ossessiva e alla mitomania di chi è disposto a inseguire ogni fumosa chimera per spiegare senza alcuna fatica il mondo a se stesso e agli altri.
Del resto, nulla di nuovo sotto il sole: contrapponendo lo spirito pratico dei romani a quello mistico degli etruschi nell’interpretare i fulmini, già Seneca scriveva:
“La differenza tra noi e gli Etruschi […] è questa: che noi riteniamo che i fulmini scocchino in seguito all’urto delle nubi; essi credono che le nubi si urtino per far scoccare i fulmini; tutto infatti attribuendo alla divinità, sono indotti ad opinare non già che le cose abbiano un significato in quanto avvengono, ma piuttosto che esse avvengano perché debbono avere un significato”. (Seneca, Quaest. Nat. II, 32, 2)
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